Una Fiaba di Neenuvar

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Tùilenor si chiamava allora la terra, prima che fosse spezzata in sette frammenti al volgere dell'autunno. Tùilenor era la terra, dimora di Elfi in quei giorni perduti e felici, tra il bianco del marmo e l'azzurro del mare, piena di luce di stelle e note di canzoni. Tùilenor era la terra e Dàelin Elentàuron il suo grande re. Tra la sua gente viveva Linwe, ultimo erede di una antica stirpe di cacciatori, giunti da quella città dove non si può più tornare e che ora riposa in una bottiglia. Linwe da loro aveva imparato canti in cui era racchiuso il vero nome delle rocce e dei venti, con parole rubate prima del tempo nel reame sotto le onde. Linwe conosceva quell'arte ed era l'ultimo dei grandi cacciatori, come mai più ve ne sarebbero stati sui sentieri cullati dal sole. Si, lo so, molti, sopratutto in questa terra, con abilità ed audacia conquistano prede gloriose. Ma Linwe era diverso. Egli era un cacciatore di silenzio.
In quell'epoca lontana, lunga come mille stagioni e tredici soli, il silenzio era generoso, docile e gentile e si faceva acchiappare quasi per gioco, magari dopo aver corso tutta la notte nella desolate foreste del Nord. Ogni volta che Linwe giungeva in un villaggio, con le sue anfore piene fino all'orlo, subito tutti accorrevano nella piazza, felici come dopo una sbronza fina, per comprare quella splendida merce. C'era un tipo di silenzio adatto ad ognuno, ed il cacciatore sapeva catturarlo nel fitto dei boschi, lungo la linea dell'alba o nel ventre dei monti. Gli amanti lo chiedevano tenero e dolce, per usarlo in quegli abbracci senza parole. I sacerdoti lo acquistavano serio e solenne e ne riempivano il tempio prima della preghiera. Ce n'era poi una calmo, caldo e tranquillo che le madri usavano per far dormire i bimbi nelle culle. Per i giullari doveva essere breve ma intenso,da liberare alla fine della storia, dopo la caduta dell'eroe ma prima dell'applauso. C'era poi un anfora di silenzio che tutti tenevano in casa, chiusa, sperando di doverla aprire il più tardi possibile. Era quello freddo e ultimo della morte, l'unico che poteva accompagnare con dignità i defunti verso la casa degli Spiriti.
E in una notte di caccia, narra la leggenda, la storia di Linwe ebbe inizio. Egli stava inseguendo la sua preda da giorni, un silenzio strano, di miele e nostalgia, e si era spinto lontano, dove la terra non aveva ancora un nome, lontano, fin dentro al manto tremulo e candido della Bruma. Qui, dove non si aspettava di trovare alcun suono, sentì lieve, tenue, soffice l'eco di una risata incastrata nell'ombra. Incuriosito ed incantato, come chi vede al risveglio il riflesso di un sogno, si lanciò ad inseguirla, quella melodia di cristallo, con la tenacia del primo fra i cacciatori. Furono sere senza sonno, sulla pista evanescente di un sorriso di fanciulla, nascosto tra gli alberi, sparso nel vento, adagiato sull'acqua. Mentre avanzava e sentiva quella risata sempre più vicina, quasi palpabile al suo tocco, nell'aria cresceva, vago, il profumo del fiore di loto. Finalmente la vide, bella oltre ogni dire, danzare e ridere con la bruma. Finalmente la vide, con occhi grandi, scuri, lucenti come un pozzo che nasconde la luna. Finalmente la vide, la Fata della Notte e per Linwe non fu che amore.
Il cacciatore la abbracciò, carezzandone i capelli soffici, di neve appena caduta e baciò quelle labbra, dolci come le bacche del bosco. Furono insieme e furono felici, per mesi che sembravano ore finché, un giorno, quando cadde la prima foglia della foresta, la Fata parlò all'amato, il suono della sua voce come quello di un sole che sorge. "L'autunno è vicino ed è tempo che io vada. Non cercarmi, amore mio, non cercarmi finché la neve dell'inverno non sarà sciolta, non cercarmi finché il primo fiore non sarà sbocciato. Giuralo. E con il ritorno della primavera, io sarò di nuovo tua".
Linwe giurò ed attese, paziente, contando una a una le notti di gelo e di freddo. Attese che la brina venisse a coprire i pensieri, mentre lunghe crescevano le ombre e la paura. Attese e proprio quando ormai la speranza fuggiva dal suo spirito, un raggio di sole colorò i petali di una primula e Linwe sentì di nuovo, accanto a lui, la dolce risata di una Fata.

Trascorse un tempo che non può essere contato, scandito da mesi di luce ed amore ed inverni di gelo e di caccia. Finché, un giorno, calò l'ombra.
Sussurri spaventati interrompevano le eterne melodie degli Elfi. Orchi, si diceva. Hanno costruito una roccaforte, sfideranno il Re della Primavera. E Dàelin fece setacciare ogni terra ed ogni contrada, ogni grotta o foresta ma nessuno sembrava capace di scovare la fortezza celata. Così, assieme con il passare indifferente delle stagioni, cresceva la paura. Nel giorno più buio di uno di quegli inverni, il terrore prese tra le sue dita di ghiaccio anche il cuore di Linwe. Iniziò a temere per la sua amata, ora che le notti non erano più sicure e, da qualche parte, brillavano fuochi pronti alla guerra. Dimenticò il giuramento di una sera antica e seguendo il profumo del fiore di loto tra monti e paludi, boschi e pianure, corse, senza fiato, sotto la luna, cercando una Fata.
Fu nel peggiore dei luoghi che Linwe la trovò, come dentro di se aveva sempre saputo, la, nella tetra cittadella del nemico, che lui solo aveva potuto trovare, seguendo una traccia impalpabile d'amore e speranza. Da un'anfora scura liberò il silenzio calmo e quieto delle stelle riflesse su un lago. Un abbraccio tiepido e sereno che fece addormentare anche quegli orchi feroci. Il cacciatore si mosse veloce, di ombra in ombra, dentro la fortezza nemica, salendo le scale di un alta torre dove, sapeva, avrebbe spezzato le catene di una fata prigioniera.
Quello che vide fu terribile, gli spezzò in gola un grido di dolore e strappò dai suoi occhi ogni lacrima di conforto. Accanto al capo dell'orda degli Orchi, abbracciata a lui, giaceva la sua fata. Ella indossava il manto dell'inverno, i soffici capelli contorti come rami secchi, la pelle candida ora nera di corteccia, unghie affilate come stille di ghiaccio.
"Perché ?" fu l'unica cosa che Linwe riuscì a dire. Ed una voce profonda come la solitudine rispose, da quelle labbra irriconoscibili che tante volte lui aveva baciato. "Perché in questo mondo esistono cose chiamate misteri, perché questa è la natura di una Fata della Notte. A te, figlio della primavera, il mio amore nei giorni caldi di luce. Agli Orchi forgiati dall'inverno appartengo nelle notti più buie. Avevi giurato". Ma il cuore del cacciatore era straziato dal dolore e, con un rantolo di rabbia decise il suo destino. "Quando il mio Re saprà di questo castello giungerà qui in tutta la sua gloria, e dopo la battaglia non resterà più nessun orco ad abitare l'oscurità. Non sarei più costretta a questa tortura, sarai mia, per sempre." "Non sarò più di nessuno, poiché la primavera non può esistere senza l'inverno. Ed io svanirò, assieme a questo mondo che sta diventando antico."
Ma Linwe già più non ascoltava, i suoi passi lo portavano veloce come la sciagura verso Altamar. Fu alle porte della città che sentì, per l'ultima volta, una voce amata portata dal vento.
"Raccogli ora, al confine tra un'epoca e l'altra, la tua ultima anfora di silenzio. Stringila, come un ricordo, finché il mondo non sarà cambiato".

E così il grande Re Dàelin Elentàuron brandì la Lama degli Spiriti ed ebbe guerra, onore e vittoria. Gli Orchi fuggirono dispersi, perduti, fino a diventare le bestie che conosciamo oggi. Ma il frastuono dell'argento contro il ferro, le urla dei feriti, il rimbombo dei tamburi, lo scoppio delle fiamme riecheggiarono a lungo tra i boschi e le vallate ed il silenzio, ferito, impazzito, divenne feroce e si nascose come un animale sul punto di morire.
Sparito il silenzio, la furia ed il fragore del mare vennero a prendersi le terre del nord, stappandole alla calma immobile del freddo. Le onde inquiete infransero la grande distesa di ghiaccio, spezzandolo in quel Mar Disgelo su cui incrociarono navi nere, portando uomini coperti d'acciaio. Dopo la fine dell'inverno, giungeva la fine della primavera.

La storia ci racconta cosa accadde, la conquista degli Uomini del Mare, il massacro degli Elfi, il dolore che ora non voglio evocare.
Ma...
Ma la leggenda nasconde una speranza. Si dice infatti che Linwe non abbia mai smesso di cercare la sua Fata, anche se perduta nella fine di un mondo antico. Che la abbia cercata per ogni sentiero, ed anche oltre. Che un giorno, usando come porta un'anfora colma di un silenzio che non esisterà mai più, e come chiave la terra dei sepolcri, mischiata al rancore degli spettri ed alla piuma di caprimulgo, sia giunto in un luogo dove non si può andare, nell'oscurità che sostiene il mondo. E che qui, finalmente, nel silenzio più puro, abbia riabbracciato la sua Fata, per sempre.
Non so se sia vero. Ma so che da allora, per chi sa ascoltare, il silenzio racchiude una nota calda, dolce.
Un ultimo dono per timidi e sognatori.

Autore

Rapace Sagace