Racconto Brinnico

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Tanto tempo fa, in un villaggio sulle pendici settentrionali dei monti Turindi viveva un ragazzo. Mezzofalco, così veniva chiamato da sempre; tanto che oramai nessuno ricordava il suo vero nome, e a nessuno importava farlo. Sarebbe in realtà dovuto morire molto tempo prima, poco dopo essere nato, sua madre era morta mettendolo al mondo e il bambino era stato portato nella foresta, al cospetto degli spiriti. Ma a differenza di quanto succedesse a quelli che avevano avuto il suo stesso destino, egli non venne divorato, ma nutrito dei frutti della foresta e dell’antico sapere degli animali.

Quando il ragazzo dagli occhi color del ghiaccio fece il suo silenzioso ritorno nel villaggio tutti lo riconobbero all’istante, ma nessuno capì come aveva fatto a sopravvivere da solo per tutto quel tempo. L’ignoranza si trasformò in superstizione, e così in paura. Lo emarginarono come un pazzo ai confini del villaggio, e i suoi coetanei lo prendevano in giro facendogli continui ed odiosi dispetti. Tutti insieme ovviamente, perché erano terrorizzati da quel sorriso che non scompariva mai dalle sue labbra, nonostante tutto.

Nessuno nel villaggio lo avvicinava o gli parlava. Nessuno nel villaggio aveva mai sentito la sua voce. Nessuno nel villaggio era suo amico. Si mormorava nel villaggio che Mezzofalco potesse comunicare con ogni creatura, ma nessuno in realtà credeva che lui sapesse neppure parlare. E invece cantava Mezzofalco! Un canto misto dei suoni delle piante della foresta, di ogni verso e richiamo degli animali. Trasportata dal vento, la natura scaturiva dalle sue labbra potente e perfetta, e la natura avrebbe risposto al suo richiamo fiorendo d’inverno o nevicando in estate se così egli avesse voluto. Ma a Mezzofalco il mondo piaceva così com’era e alla natura non aveva mai chiesto nulla di più.

Ma in un giorno buio e freddo d’ inverno, un giorno di tempesta, dalle grotte nelle montagne una delle più brutte e feroci orde di orchi che si fosse mai vista si riversò nel villaggio, proprio mentre tutti stavano dormendo.

La paura afferrò il cuore degli abitanti e il panico spezzò ogni possibile difesa. Gli orchi bruciavano, distruggevano e sbranavano tutto ciò che potevano vedere o fiutare. Le poche guardie del villaggio furono tutte brutalmente uccise e un solo vecchio guerriero rimase in piedi a fronteggiare i bestioni. Con un urlo agghiacciante che pietrificò le ormai stanche gambe del vecchio, gli orchi gli si gettarono addosso con mazze e bastoni alzati, pronti ad abbattersi. Conscio della schiacciante inferiorità il vecchio chiuse gli occhi, e pregò che gli spiriti gli avrebbero fatto presto dono della morte. Ma il grido delle bestie fu sovrastato da un suono improvviso, dolce e terribile allo stesso tempo, che nessuno aveva mai udito prima. La dolcezza di quel canto scaldava il cuore ma offuscava la mente di tempesta. Quando il vecchio riaprì gli occhi vide gli orchi con le armi ancora alzate, ma i loro sguardi storditi erano persi nel vuoto.

Quasi impercettibilmente, il canto cambiò e l’orda di orchi incominciò a muoversi, lentamente, verso la rupe a picco sulla spiaggia, poco distante dal villaggio. Poi improvvisamente il canto cessò com’era venuto. Gli orchi si destarono all’istante, ma furono investiti da un suono ancora più tremendo, un’armonia di grida, ruggiti e versi che colmavano il cuore d’orrore al pensiero delle più terribili e feroci creature che si possano immaginare. La stessa paura che aveva avvolto il villaggio, strinse i suoi artigli sulla mente degli orchi, fin dentro alle loro viscere. Ululando e gridando come disperati, con gli occhi bianchi dal terrore, i bestioni si scontavano tra di loro, combattevano e fuggivano da quei suoni gettandosi giù dalla scogliera.

Ancora una volta il suono cessò per far posto ad un altro canto, questa volta imponente e roboante. Come in risposta, il fianco della montagna incominciò a tremare, facendo franare massi, terra e ciottoli. Il terremoto innalzò il mare, che si abbatté sulla piccola spiaggia scavando la roccia e ingurgitando tutto nelle profondità degli abissi. La rupe si staccò, intera, e come se fosse sospinta dal mare si adagiò verticalmente in mezzo all’enorme piana che si era appena formata. Fiera, a suggellare il trionfo.

Il canto si spense lentamente accompagnando la ritirata del mare e lasciando una grande desolazione, sulla terra come nei cuori.

Gli abitanti, avvicinandosi dove una volta c’era stata la rupe, videro Mezzofalco svestirsi di un manto fatto della buia notte, tremante, esausto e senza il suo solito sorriso. Per la prima volta conobbero la sua voce quando disse: “Ora io me ne andrò”. E per la prima volta conobbero la colpa, la tristezza e la compassione verso quel ragazzo solitario. E piansero.

Quando si fu completamente ristabilito Mezzofalco se ne andò, in silenzio, così come era arrivato. Si dice che sia diventato uno dei più grandi cantori che siano mai esistiti, che abbia viaggiato in tutte le Terre Spezzate dove il ricordo del suo canto rimarrà per secoli, ma soprattutto che abbia ripreso il suo vero nome, di cui lui solo aveva memoria. Il villaggio invece precipitò nella tristezza e la maggior parte degli abitanti si trasferirono in altri insediamenti più a sud. Alcuni, tra cui il vecchio guerriero che aveva avuta salva la vita, non si persero d’animo e vollero celebrare il ricordo di Mezzofalco. Per mesi interi scavarono nella vecchia rupe ottenendo una delle più imponenti torri mai viste.

Ancora oggi, quella torre si staglia solitaria e coraggiosa nella stessa piana desolata che si formò quella notte, ed è diventata un baluardo per tutta Altabrina, un monito alla resistenza contro i suoi nemici di sempre. Un giorno vi porterò a vederla, bambini. Un giorno vi porterò a vedere la torre che veglia, ma ora dormite…

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Questo racconto venne ascoltato da Inverno quando era ancora molto giovane. Ogni tanto, di nascosto, si sedeva sotto alla finestra della stanza da letto di due bambini, un maschio e una femmina, la cui madre soleva raccontare delle storie per farli addormentare...