Le case di Castelbruma

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Recitato da Rapace Sagace durante i festeggiamenti per il compleanno di Sofia, nello Sferzato 1260. Storia offerta dal principato di Neenuvar
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Recitato da Rapace Sagace durante i festeggiamenti per il compleanno di Sofia, nello Sferzato 1260. Storia offerta dal principato di Neenuvar


I miei saluti a voi, nobili signori. Parlando di saluti, ce n'è uno che preferisco su tutti : quello dei cacciatori di Alarico. Nella Bruma. Lo sentite ? Nella Bruma. Son solo due parole ma si portano dentro tutta una terra e tutto un popolo. La Bruma. Lei arriva, dai boschi, dalla torbiera, non gli importa quando, inverno, estate, lei arriva, puntuale come un'amante. Scende lenta lungo i versanti delle colline impigliandosi appena tra i rami degli alberi spogli e poi continua, là fino a valle. E allora, in quelle sere in cui si sente forte la voce degli antenati, a parte i castelli, giù lontano nella pianura, le uniche cose che resistono all'assedio della nebbia, sono le case. Le case di Castelbruma.

No, mica quelle dei borghi, tutte schiacciate attorno alla rocca, quelle c'è dappertutto. No. Le nostre case arrivan da lontano, da un regno dimenticato oltre il mare. Appaiono così, all'improvviso. Siete nella foresta, svoltate per un sentiero e ve la trovate davanti, la a pochi passi, dove sembrava non potesse esserci altro se non radici e bestie. La prima cosa è il muro. Sassi. Forte, solido, spesso, ma senza grazia, si vede che è stato tirato su in fretta perché ce ne sarebbe stato bisogno presto, appena fatta notte. Poi c'è il portone, chiuso. No, non è diffidenza. E' che da noi se qualcuno ti entra nel terreno probabilmente vuole mangiarti. Oppure è un orco li per rapirti le figlie. Nel peggiore di casi, è un valniano.
Ma per chi cerca ospitalità, per loro le porte si aprono sempre. Una volta varcata la soglia ci si trova nel piccolo orto : cipolle, qualche tubero e, a fianco, c'è la catapecchia per quei quattro maiali che durante il giorno han mangiato ghiande nella foresta. Lei sta li, in mezzo, la casa. Con il tetto spiovente, fino al suolo, a proteggere, a nascondere le pareti. Che adesso le fanno in pietra ma una volta eran di legno anche loro, un legno che nei secoli è diventato nero e duro come la terra.
Mentre ci si avvia verso l'ingresso si sente dall'estremità opposta come una cantilena...sidereo...canuto...sidereo...canuto... No. Non è il prete, di quelli ce n'è raramente nei nostri cortili. No. E' la categoria più religiosa di tutta castelbruma. Il Fabbro. Che bestemmia, la nella fucina. I Fabbri conosce a memoria tutti i nomi di Devoti e di Tetratchi perché quando ti dai venti libbre di ferro sulla mano bestemmiar quattro dei non basta.
E finalmente si entra nella casa vera e propria. Oltre le porte c'è un corridoio e, subito di fianco, una piccola stanza che, per chiunque sia cresciuto a Castelbruma, è speciale. E' poco più di uno sgabuzzino, o una dispensa, ci si metton le verdure e si appendon le carni a seccare. Il pavimento non c'è, è solo terra, ed è qui che una volta tornati dalla caccia ci si toglie gli stivali pieni di fango e ci si mette quelli da casa. Ecco, questo odore, misto scarpone cinghiale, per me, da bambino, ha sempre avuto il significato di abbondanza. Si lo so, poi lo ho scoperto ,viaggiando, che siamo una terra povera, ma non ci posso fare niente, ancora adesso a pensarci a quel profumo mi convinco che l'abbondanza è aver cibo per l'inverno.
In fondo al corridoio c'è la sala principale, larga, lunga. Qui si cammina su argilla mischiata a calce, dura, compatta. Nelle più ricche, qualche tappeto. Al centro, il grande focolare. Poi una lunga tavola che termina con una pedana rialzata. Li possono sedere solo gli ospiti e il Signore della casa. Lui non lavora come gli altri, no. Lui attende, vigile. E quando fuori il corno chiama il pericolo, prende la corazza, l'ascia e non torna finché la sua terra non è di nuovo sicura. E' a questo che servono i nobili, a proteggere. Negli altri principati a volte ce ne si dimentica, ma non a Castelbruma, dove le case sono assediate dalle spine degli alberi, dalle zanne delle fiere.
Non da mani tese ma in punta di lancia si raccolgono i doni recita il vecchio proverbio e il nostro dono, la nostra terra, la prendiamo ogni giorno con lance e sudore.

Sippe dicevano gli Uomini del Mare. Famiglia diciamo noi. Ma è di più. E' casa, è appartenenza, è terra. E' tutto quello che vi ho raccontato fino ad adesso. Uno dei due padroni di ogni brumiano. L'altro, era la Druthiz per gli antichi. La schiera, l'esercito. E tu attendi impaziente di andarci, di uscir dalla tua casa e di andare a difenderne una più grande, che ha i monti ed il mare come mura ed una sola terribile porta: Forte Guardiano.
I compagni d'armi. Io i miei li ricordo ancora tutti, nonostante quello che è successo, nonostante quell'orrore.
Si tutti. C'era Osvaldo che poverino, appena è arrivato, han cominciato a picchiarlo e chiamarlo damigella perché sapeva leggere e scrivere, ma lui ha continuato, imperterrito, ogni sera, a scrivere lettere alla sua belle lontana e alla fine abbiamo iniziato a rispettarlo e a considerarlo uno di noi. Chissà se le sono arrivate, poi. Chissà se lei si considera vedova, o se ha scelto di dimenticare. E poi c'era Umberto. Un bruto grasso, pelato, il più brutto del reggimento, di tutto l'esercito forse. Lo chiamavamo Il Magnifico. Era brutto si, ma di lui ti potevi fidare sempre. Quando c'era Umberto a coprirti le spalle non avevi paura di niente.
E ultimo, Bertoldo. Alto, grosso, con delle mani che parevan dei rostri. Si muoveva a questa velocità massima. Ma poteva portarsi dietro dieci quintali di valniani vivi. Certo, non era proprio furbo, anzi, era peggio dei muli. Alla fine di ogni battaglia, quando si girava a finire i nemici sconfitti con il misericordia, si sentiva sempre la sua voce che urlava Ma chi è che ha vinto ?
Noi ! Abbiamo vinto noi Bertoldo.

Eravamo una bella compagnia. E così, finito l'addestramento, ci hanno mandato di stanza ad Approdo. Sono stati bei giorni quelli, anche e è finito tutto troppo in fretta.
Una sera, dopo aver perso a dadi, mi tocca andare a fare un giro di ronda oltre le mura e così io ero lontano, fuori, quando tutto è iniziato.
Era il settimo giorno della prima decade di Caduceo dell'anno 1256.
Mentre io mi trovavo la, di sentinella tra la bruma, poco distante da qui, ad Ambra, il Sire Calemor aveva iniziato a leggere la profezia della Pergamena Scarlatta.
"Cinque volte maledetti siate voi, invasori
dal Nord, demoni nemici di tutto ciò che è buono. Le armate delle stelle sono sconfitte, ma non è morta la loro guerra. I vinti ritorneranno, e cacceranno gli invasori del Regno della Primavera."

Approdo fu la prima ad essere colpita dall'esercito dei morti maledetti dagli Elfi. Ed io non poteva fare nulla, solo guardare. Quella marea putrida di ossa e ferro che schiantava una, due, tre volte contro le porte della città, fino a romperle. Le urla dei feriti, i nostri perché i morti non grida, sempre più vicine alla rocca e poi i combattimenti, su, in alto, tra i merletti della torre dove i miei compagni faceva quello che ogni brumiano sa fare meglio. Resistere. Ed alla fine, oltre la polvere sollevata dalla battaglia e la nebbia, un solo grido. Chi è che ha vinto ?
Non noi Bertoldo, questa volta non noi.

Non da mani tese ma in punta di lancia si raccolgono i doni.

Approdo fu distrutta in una sola notte. Ed i suoi caduti hanno conquistato il dono più grande. Il nostro ricordo.
Io vi saluto, guerrieri.
Nella Bruma !.

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Rapace Sagace