La storia di Sara e Alcebruno
Un racconto della Guerra dei Tre Re, narrato a Dama Ariel
Amica mia, ti racconterò una storia che mi fu narrata da uno sciamano del Falco di nome Alcebruno; lo vidi due volte nella mia vita, la prima ad una Fiera delle Erbe, intento ad acquistare i reagenti necessari a confezionare impacchi, della seconda te ne parlerò più tardi.
Ti riferirò questa storia come lui l’ha raccontata a me.
“Io sono Alcebruno, io che ho vagato in tutte le terre per ammirare con questi occhi da pitto i luoghi più splendidi creati dagli spiriti: e vidi i monti e i ghiacciai della mia terra e le nere torri di Castelbruma stagliate sulle nere foreste e la morbida Pianura Scarlatta e la Selva dei Lupi ed il deserto a sud, oltre Piazza del Sole. Incontrai un pellegrino a Badia d’Espero, un uomo che mi disse di cercare a Neenuvar i luoghi più belli delle Sette Terre, mi disse di cercare i laghi di Andùnelen.
Mi incamminai ed una sera giunsi a Neenuvar, dove si può vedere solo il tramonto e mai l'alba, e allora vidi, vidi con le gambe immerse nel lago, vidi il mio amore.
Ella aveva un nome in Quenya, un nome che non so pronunciare senza rovinarene la grazia, ed aveva un nome in Vernacolare: ella si chiamava Sara, Sara come la prima donna della sabbia che si unì ad un Elda per dare inizio alla dinastia degli Eredi.
Ci parlai e la conobbi ed ella mi parlò di Andùnelen, di Neenuvar e del fratello Neentirion; calò il sole e allora stringi, stringile la mano, guarda, guardale gli occhi, bacia, baciale la bocca.
Ella mi fece conoscere Neenuvar: vidi i boschi e le montagne dei Fànyati, prima che fossero profanate dagli Ashai, e scorsi Andùnelen, la città creata dagli eredi per dimostrare agli Elda che c’è sempre un domani, c’è sempre una speranza e vidi Rìlmeren da cui, quando il cielo è terso, ti sembra di vedere Castamante, la città sacra dei Tetradici, ed ogni sera stringi, stringile la mano, guarda, guardale gli occhi, bacia, baciale la bocca.
Passai un’estate splendida ed un autunno ancora migliore ma poi giunse l’inverno ed a ricordarmelo non fu il freddo o la neve ma furono i corni, i corni suonati dai miei alfieri: “Torna Alcebruno, torna, c’è la guerra” “La guerra? E chi ci attacca?”. Scoprii in seguito che dovevamo aiutare un invasore Brumiano prima e un usurpatore Merida poi, ma io non capivo e avevo promesse e avevo una famiglia, ed allora partii ma non prima di aver salutato il mio amore; per l’ultima volta in quel maledetto 1258 stringi, stringile la mano, guarda, guardale gli occhi, bacia, baciale la bocca ed una promessa: “ritornerò, Sara, verrà la Primavera ed io ritornerò e sarà tutto come oggi”
Mi riunii alle truppe di Alarico nell’Oltrespina: non ho combattuto quella battaglia, ero nelle retrovie con gli altri sciamani, con i cerusici, con i cacciatori più abili con le bende che non con la spada affinché, anche se avessimo perso la battaglia, gli uomini sarebbero restati vivi per combattere domani, per cacciare domani, per vivere domani.
Mi venne però portato un corpo, un corpo che né impacco, né cerimonia, né aura di stasi riuscirono a salvare: mi venne portato il corpo di mio fratello. “Chi l’ha ucciso, chi, ditemelo! Ditemelo, affinché io possa avere la mia vendetta!” Scoprii che mio fratello era stato ucciso dal Neentirion di Andùnelen, dal fratello di Sara.
Incurante della mia tragedia, la guerra continuò in tutte le terre, come io ero indifferente a tutte le altre famiglie spezzate del regno; la guerra continuò ed esplose nei Campi Plachi.
Non parlerò di quella battaglia perché non merita di essere ricordata, dirò solo che quando Temistocle piegò il ginocchio, perdendo l’onore, ma salvando la sua gente, e che quando Falcobrando fuggì, lasciando a morire i suoi uomini, io corsi, corsi ad Andùnelen e sulla porta della casa di Sara vidi suo fratello, ma non ero lì per la vendetta: troppi uomini erano già morti. “Dov’è Sara, dov’è?”. Mi portò da lei: era adagiata su un giaciglio, il costato avvolto di bende oramai scarlatte. “Chi è stato, dimmelo!” mi fece vedere la freccia, e l’impennaggio, il maledetto impennaggio, l’impennaggio che usiamo noi del Falco per dimostrare che siamo noi i migliori cacciatori della brina, i più abili a portare la morte ai nostri nemici.
Per l’ultima volta stringi, stringile la mano, (ma era mai stata cosi fredda quella mano?), guarda, guardale gli occhi, (ma dov’è la luce che li rendeva cosi belli?) bacia, baciale la bocca, (ma cos’è questo sapore, è sangue?), e per tutto il tempo mentile, dille che andrà tutto bene, dille che sarete felici, che arriverà la primavera.”
Vidi per la seconda volta Alcebruno a Torre Veglia ed in quella occasione mi raccontò questa storia. Quando finì mi disse che sarebbe andato ancora a nord, verso le terre dei Diurni, e mi lasciò con queste parole.
“Io non avevo molto: avevo del pane per quando arrivava la fame, dell’acqua per placare la sete, delle pellicce per combattere il freddo, una capanna per ripararmi dalla pioggia e questo mi bastava, mi rendeva felice.
Altri avevano molto più di me: quando avevano fame si sfamavano con la carne del cervo, quando avevano sete bevevano la birra più forte ed il vino più dolce, quando giungeva il sonno dormivano nei palazzi e nei castelli e avevano Arconti e Duchi che combattevano per loro e Cavalieri che conducevano le loro truppe e plebei che lavoravano per loro, ma questo non gli bastava: ritenevano inutile la loro vita senza un cerchio d’oro a cingergli il capo. Forse un giorno spetterà a te scegliere se queste terre godranno ancora di pace, magari solo per un anno ancora, o se verranno nuovamente flagellate dalla guerra. Quel giorno pensa a mio fratello, pensa alla bella Sara.”
Autore
Gufotetro del Clan del Gufo