La città fantasma
Antigone arrivò come sempre senza avvertire.
Stavo lavorando alle mie annotazioni giornaliere quando la vidi attraverso la finestra del monastero oltrepassare la porta. La sua sacca era grande. Si sarebbe fermata abbastanza a lungo. Si tolse il mantello e andò subito nel capanno degli attrezzi. Tornò con una cesoia e un segaccio.
«Bisogna potare la Solandra, altrimenti non reggerà l’estate. E poi c’è uno dei Lecci che sta crescendo tutto storto». Continuai a lavorare. Ogni tanto alzavo la testa dal mio quaderno e la vedevo usare quelle grosse chele come se fosse un’acconciatrice di palazzo un po’ pazza, e intanto parlava con le piante, commentava il tempo o raccontava del suo orto.
Dopo una piena ora venne a sedersi al tavolo. Accese una pipa e la fumò guardando il fiume oltre la recinzione di isolamento.
«Ho il morbo» disse.
«Lo so».
«Incurabile ».
«Fai sempre le cose in grande, Antigone».
Tornò a osservare il Fiume. Una piccola imbarcazione sul Patrio si staccò dalla riva procedendo pigramente verso Elianto, come se non avesse voglia di arrivarci. Da quando Antigone era arrivata non avevo fatto altro che sbirciarla, cercando segni evidenti della malattia. Era solo un po’ più magra. Il collo ballava leggermente nel colletto della tunica e la pelle del volto era appena più scura intorno al naso e sulla fronte. Se non avessi saputo non avrei mai immaginato che la grande bestia, il morbo senza nome, l‘aveva azzannata. Avrei pensato alla stanchezza e all’età che avanzava. D’altronde aveva 60 anni, anche se pensava di averne 20 di meno. L’ultima volta che l’avevo vista era stato qualche mese prima, in una bettolaccia da qualche parte nel nordest della città, oggi a noi inaccessibile. Stavo tornando con un amico, Padre Gideone, da una lectio e facemmo una piccola deviazione per andare a trovarla. Sapevamo dove andare.
Mentre stavamo bevendo una birra, aveva redarguito un bruto del deserto che aveva mancato di rispetto ad una baldracca. Il nomade l’aveva aspettata all’uscita e le aveva puntato nel basso ventre un pugnale affilato, pretendendo delle scuse.
«Affonda» aveva detto Antigone in tono seccato. «Affonda. O ti strappo quella lametta e ti faccio male». Il bruto era rimasto interdetto. Le cose non stavano affatto andando come aveva immaginato. Aveva abbassato l’arma e farfugliato qualche spiegazione, cercando di salvare la faccia. Antigone lo aveva costretto a scusarsi, poi lo aveva invitato a bere. Noi non li avevamo seguiti.
«Com’è finita con il bruto?» domandai. Alzò le spalle come per scacciare un pensiero senza importanza. «L’ho steso a forza di idromele. Una piccola e insignificante testa di cazzo».
Dalla sacca prese una manciata di fogli e le appoggiò sul tavolo.
«Voglio raccontarti un po’ di storie. Magari ci scrivi un libro».
«Pensa a curarti. Per le memorie c’è ancora tempo».
«Certo, certo... però è meglio non correre rischi».
Andai a prendere una nuova boccetta di inchiostro. E la vecchia iniziò a raccontare. Quando era stanco mi faceva segno di interrompere e andava a giocare con un cane ammalato nel giardino o a chiacchierare con Madre Micaela. La notte ci ritrovavamo spesso a fumare in silenzio, al buio.
«Secondo te, cosa c’è dall’altra parte?... E non darmi una risposta da Frate» chiese una mattina.
«Nulla» risposi, dando un morso ad una focaccia stantia, tutto il cibo che riuscivano a passarci dall’esterno per colpa della carestia.
«Già. Credo anch’io» - mi disse.
La settimana seguente ci raggiunse Padre Gideone, il capo dei guaritori del monastero. Il suono del suo flauto riempì la casa e il giardino, rendendo più lievi quelle lunghe sedute di fronte alla carta. A me più che ad Antigone, che scavava senza incertezze nella memoria della sua vita da fuorilegge alla ricerca di avventure e aneddoti degni di essere raccontati. Io, invece, avrei voluto mille volte smettere e rinviare per anni e anni la raccolta di quel materiale.
Antigone era arrivata dando per scontato che avrei scritto un libro sulla sua vita e non avevo avuto il coraggio di spiegargli che la scrittura era una faccenda complessa. Ero turbato dall’idea che quel suo desiderio di raccontare fosse dovuto alla malattia e alla convinzione che non gli restasse più molto tempo. Fui però subito affascinato dalla bellezza delle sue storie, e i miei dubbi si dissolsero completamente quando mi resi conto che la vera Antigone l’iguana, la carissima amica che avevo trasformato in una delle eroine delle storie che raccontavo, assomigliava davvero a quella di carta, e decisi che la sua storia dovesse essere tramandata. Per chi, fuori da queste mura, non sa cosa vuol dire essere imprigionati, non solo in un corpo malato, ma anche imprigionati nella mente, imprigionati dalla paura dentro la propria città.
Antigone ripartì quando ritenne di avermi raccontato tutto. Io e Gideone non potemmo accompagnarla. L’isolamento nel quartiere povero è totale. In casa la sua presenza aleggiò ancora a lungo e ogni tanto, di notte, mi sembrava di vedere nel buio l’arancio luminoso proveniente dal bracere della sua pipa.
Il deserto posò un velo di polvere sul mucchio di fogli che stavano in bella mostra sulla mia scrivania, vicino alla pipa che Antigone mi aveva regalato prima di tornare nel suo quartiere. Era stata scavata nel corno strappato ad un minotauro, in un sentiero di montagna, quando la mia amica era molto più giovane, slanciata e bellissima. All’epoca sugli occhi si accennavano le prime rughe, e con i capelli corti e quel taglio di occhi assomigliava ad un’iguana. Se n’erano accorti anche i guerrieri della sabbia al servizio di Temistocle che avevano iniziato a chiamarla “l’iguana del deserto” per distinguerla dagli altri contrabbandieri. Ma erano altri tempi, altri uomini, non certo i sanguinari contrabbandieri del “clan dei 21 scudi” di oggi.
Una sera Antigone tornò all’improvviso: «Hai iniziato a scrivere?».
«Non ancora. Ho altri lavori da finire...».
«Sbrigati. Vorrei fare in tempo a leggerlo. Hai pensato al titolo?».
Sceglierlo non era stato difficile: «Racconti da Badia d’Espero: il luogo dove il sole del deserto va a morire».
Rimase a lungo in silenzio. Poi canticchiò alcuni versi di una vecchia canzone dei contrabbandieri del sud:
“
E' l'azonte maligno
che l'ombra ti rubò
e tu ora sei malato
e lo spirito ardente
che hai ammazzato
non ti perdonerà
nel cuore del deserto forse tu
troppo ti sei addentrato
tu chiami la tua ombra ma
lei non ritornerà!” (“
Canto dei cercatori del deserto”, Canzone popolare merida)
“La seconda parte della canzone non mi piace, Padre. Pregate voi da parte mia. Chissà che il sole del deserto decida di rendermi l’ombra rubata”.
Se ne andò com’era tornata. Non la vidi più.
Sto morendo anch'io ora, e lo stesso Padre Gideone. Per quanto io ed i miei fratelli del monastero abbiamo combattuto non siamo riusciti a contenere il morbo. Il fatto che per curare sia inevitabile ammalarsi non ci permette di mettere un freno alla sua maledetta cavalcata. E così il morbo mi ha trovato ed ogni giorno a Badia d’Espero decine di persone scompaiono per il morbo senza nome. Centinaia di storie e memorie che si perderanno per sempre.
Abbiamo bisogno di aiuto.
Vi prego Dei onnipotenti…
Che qualcuno ci aiuti…
Autore
Autore anonimo