Il Torneo della Rosa

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Quando Edoardo il Magnifico entra in lizza...
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Quando Edoardo il Magnifico entra in lizza...


Un buon sorso di vino mi fece riprendere i sensi mentre Ildebrando, quel giovane scudiero che mi seguiva ormai da più di un anno, mi riallacciava l’armatura.

“Portamene un altro!”
Gli diedi il boccale vuoto e attesi il suo ritorno, dall’esterno del padiglione si sentiva riecheggiare, confusa tra le urla del pubblico, la voce dell’Araldo che annunciava il prossimo scontro.
Tra non molto sarebbe stato nuovamente il mio turno. L’ultima mischia era stata decisamente pesante, dieci cavalieri in un affollato recinto, decisi a scagliarsi gli uni contro gli altri, pronti a rimanere in piedi sino alla fine: solo uno sarebbe rimasto in lizza. L’arena è un gioco di rapide alleanze e tradimenti, durante il quale se non sei abbastanza scaltro finisci nella sabbia, e una volta a terra lo scontro per te è finito.
L’ultimo colpo che mi era stato assestato l’avevo incassato sullo scudo, e mi aveva sbilanciato indietro di qualche passo. Ma il mio avversario, Ser Riccardo dei Sestesi, era stato avventato a scagliarsi in avanti con tutto il peso del suo corpo coperto dal pesante metallo dell’armatura da mischia; la grossa mazza che brandiva quasi mi aveva staccato lo scudo di mano, ormai scheggiato dai numerosi colpi. Ma era bastato un rapido movimento della mia spada, un fendente ben assestato diretto al polpaccio destro e l’imponente Ser Antonio era finito faccia a terra. Era il nono a cadere, quello in piedi ero io.

“Ser Lotario, ecco il vostro vino!”
Presi la coppa e mandai giù parecchi sorsi: il vino caldo e speziato mi ridava vigore, il sangue mi ardeva e i lividi che recavo in corpo ormai non erano che un ricordo. Avevo bisogno di tutte le mie forze per il prossimo scontro, lo scontro che mi avrebbe portato al Gran Duello, lo scontro che mi avrebbe portato alla gloria.

“Ildebrando, prendi lo scudo, è tempo di andare”
Infoderai la spada smussata e presi il grande elmo che recava un lungo pennacchio rosso e verde, i colori della mia casata. Mi muovevo quasi per inerzia, i pensieri erano fissi sull’avversario che dovevo affrontare e a stento riuscivo a controllare l’agitazione per lo scontro.

L’Araldo chiamò i contendenti, non risparmiando titoli e possedimenti nella sua lunga e pomposa presentazione. Le parole mi scorrevano addosso, in piedi, al limitare dell’arena, con a fianco il giovine Giuseppe che mi portava lo scudo e la scelta di armi di riserva, continuavo a pensare: ero riuscito quasi ad arrivare all'ultimo scontro, la Rosa d’Oro avrebbe potuto essere mia e così il rispetto e l’ammirazione di tutta Valleterna.
Ero stato fortunato, non posso negarlo, Ser Riccardo, sconfitto nello scontro precedente, non era il tipo d’uomo da cedere dinnanzi all’ultimo avversario della mischia, ma nella foga di finirmi, con gli occhi che gli brillavano per il Gran Duello ormai a portata di mano, aveva commesso un errore fatale.

“…Ser Lotario di Monfiore!” disse a gran voce al termine della sua presentazione l’uomo vestito di rosso e bianco, l’Araldo di Valleterna. Imbracciai lo scudo e mi diressi a gran passi verso il centro dell’arena.

Eccolo sopraggiungere, in tutto il suo splendore, avvolto da un lungo mantello bianco e coperto la una splendente armatura argentata. I suoi due paggi gli reggevano lo scudo, intonso, recante lo stemma di Valleterna, e la scelta di armi di riserva; doveva essere un onore poter incontrare nel Gran Duello il Principe Edoardo in persona, chiunque avrebbe voluto essere al mio posto in quel momento, e anch’io l’avrei pensato…se non fossi stato lì.

Il “Magnifico”, così era chiamato il Principe, stava facendo il giro dell’arena, salutando tutti i nobili, cavalieri e dame, sotto gli applausi scroscianti del pubblico. L’elmo del nobile cavaliere era di foggia antica, aperto a sufficienza da lasciar vedere il suo sorriso sempre lucente, e da quell’elmo mi sentivo osservato, quasi studiato da quegli occhi dorati.
Uomo sfarzoso e dalle maniere gentili, era molto attento ai propri vassalli e non smetteva mai di portare i propri omaggi ad alcuno, raccogliendo di tanto in tanto i monili e i drappi che giovani dame palpitanti gli donavano dagli spalti. Ogni quattro anni, in onore degli dei, prendeva parte al grande Torneo della Rosa, e in ogni occasione era sempre stato lui a trionfare. Pensavo che vincesse per cortesia degli altri cavalieri, pensavo che anche i più forti dinnanzi al proprio principe si ritirassero o sbagliassero di proposito a colpire.
Codardi, in uno scontro l’avversario è sempre l’avversario, che sia esso un Bruto o il Re in persona. Ma alla vista di quelle vesti purpuree e della rosa dorata di Valleterna che recava sullo scudo non riuscivo a rimanere tranquillo: l’avevo visto combattere, volteggiare nelle mischie e nei duelli quasi fosse mosso dalla mano di Canuto e non l’avevo mai temuto più di quanto lo temessi ora.

Il principe aveva terminato la sua parata e ora si trovava diritto davanti a me, all’opposto dell’arena, in piedi mentre lo scudiero gli fissava a meglio lo scudo al braccio. Estrasse la spada e la alzò verso il cielo in segno di saluto, dichiarando implicitamente quale arma intendeva usare; risposi allo stesso modo, accettando la sfida.
L’Araldo si avviò verso il centro del campo, in mano la rossa bandiera dello scontro; il vento di primavera soffiava fresco a Valleterna e nell’aria portava profumo di gelsomini, viole, e rose.

“Che Vibri l'Acciaio!”
La sua voce spezzò l’arena, in contemporanea alla purpurea bandiera che solcava l’aria dall’alto verso il basso: il momento era giunto.

Mossi verso il principe, dominavo il centro dell’arena e questo mi dava un buon vantaggio rispetto a lui che ancora si trovava al limitare. Il Magnifico tenne la spada bene in vista, in linea con il braccio, puntata verso il terreno e iniziò a camminarmi intorno, seguendo il profilo dell’arena. Il centro era mio e dovevo tenerlo, incalzarlo negli angoli, al bordo, sino a farlo cedere.
Scrollai la testa soffiando come un toro, dovevo rimanere lucido e pronto: riflettevo su come muovermi, quando colpire, la tensione mi consumava, quasi non ci vedevo dalla stretta fessura dell’elmo chiuso che indossavo.
Poco dopo il segnale dell’Araldo l’intera arena si era ammutolita, l’unico suono che si percepiva erano i lenti passi calcolati dei due cavalieri. Ma il silenzio fu spezzato da un ampio fendente sferrato del principe, quasi a controllare se ero attento, lo parai, era facile, ma appena le spade scintillarono nell’aria, un altro fendente partì e dovetti bloccarlo con lo scudo; ma poi ancora un altro e un altro ancora, e il pubblico cominciò ad urlare ed io arrancai: passo dopo passo il principe guadagnava terreno. La sua lucente sagoma era sempre più grande, i suoi colpi incessanti e maledettamente precisi; dal possente elmo pareva quasi di vedere il suo volto ridente.
Paravo, sferravo, sentivo la forza del suo braccio ad ogni tocco della spada che si muoveva fluida nell’aria; sferrai un fendente diretto al volto che andò a scalfire la rosa sul suo scudo e mi diede il tempo di arretrare di un paio di passi per prendere fiato.
Ero lì, al centro del Grande Torneo della Rosa, sotto gli occhi di tutta Valleterna, a combattere lo scontro dove un cavaliere come me avrebbe avuto la possibilità di dimostrare il proprio valore. Il corpo mi doleva, il principe mi aveva colpito in diversi punti sull’armatura e l’imbottitura non bastava a tener lontano il dolore delle precedenti mischie. Reggevo saldamente lo scudo dinnanzi a me, quel muro di ferro e quercia che mi teneva lontano dai mirati colpi del Magnifico. Lo osservavo, lo studiavo, sapendo che lui stava facendo lo stesso; avrei dovuto tentare di colpirlo alle gambe, sarebbe bastato un colpo potente e il principe sarebbe finito nella sabbia dell’arena per la prima volta da quando era al potere, e io, Ser Lotario di Monfiore, sarei stato ricordato nei secoli come il primo ad averlo abbattuto.

Ser Edoardo aveva portato nuovamente la spada bene in vista alla destra dello scudo e ora avanzava puntando verso di me. Dovevo colpirlo, dovevo farcela, caricai per primo, negli occhi brillava la mia sete di vittoria e cominciai ad attaccare con incredibile foga; lo sbilanciai indietro, perse terreno, ed io continuai ad avanzare. Era un buon momento, lo caricai con tutto il corpo tenendo dinnanzi lo scudo, ma il principe fu incredibilmente rapido.
Roteò su se stesso, evitando la carica e colpendomi da dietro direttamente sull’elmo; tutto intorno cominciò a vibrare, quasi persi il senso dell’equilibrio finchè fui scosso da un dolore lancinante che mi percorse la mano e sentii l’acciaio della mia lama risuonare sordo nella sabbia dell’arena. Voltai il capo, attonito, poco prima che un fendente mirato alle gambe spostasse il mio baricentro facendomi piombare a terra.

Il Principe abbassò la lama e iniziò a camminare in circolo come un lupo intorno alla sua preda morente; ero stato sconfitto, il torneo, per me, era finito ma non potevo lasciare il campo con la sabbia in bocca, deriso da tutti. Trovai dentro di me le forze per alzarmi e, barcollando tentai di rimettermi in piedi. Raccolsi la spada e guardai il principe negli occhi; gliela porsi dall’elsa chinando il capo.
“Mio Signore! E’ stato un onore!”

Il Principe Edoardo sorrise radioso, guardandomi con quegli occhi profondi che trasmettevano sicurezza ai propri sudditi. Rispose all’inchino con un cenno della testa, infoderò la propria lama e prese la mia. La alzò verso il cielo e il tiepido sole del pomeriggio la fece risplendere dinnanzi a tutta la folla. La voce dell’Araldo fu scavalcata dal roboante scroscio d’applausi che piovve sull’arena.
“Lode a Edoardo, Principe di Valleterna! Gloria al Magnifico!”
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