Deiezioni umane

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Un lungo tavolo ovale di legno antico non consumato dagli anni si staglia al centro di un enorme salone di pietra. L’eco di ogni rumore si propaga talmente a lungo che pare di essere sospesi tra lo spazio ed il tempo di un luogo sconosciuto.Ad un capo del tavolo ogni cosa è illuminata per poi via via digradare verso la tenebra all’altro capo.

Le numerose figure che occupano i posti intorno al tavolo sono eterogenee come il giorno e la notte. Provengono dai quattro angoli del reame. E tutte sono intente a guardare la riproduzione di un regno che si estende su tutto il lungo tavolo. Un regno composto di terra, sabbia e pietra. Acqua e ghiaccio. Foreste e animali. Un regno diviso in sette parti dalle stirpi delle razze che percorrono quelle lande tumultuose.

“Signori, qual è la situazione?” – A parlare è colui che almeno ad una prima occhiata dev’essere il più vecchio. Ma dai suoi occhi incorniciati da una folta barba e da capelli bianchi come le nuvole non traspare debolezza, ma forza. Potrebbe essere un comandante, uno stratega, un veterano di mille battaglie.

Vi è silenzio, in attesa che qualcuno incominci a parlare. Ed a farlo è una donna, una vecchia anch’essa, di quelle a cui ci si rivolge per avere delle predizioni per il futuro. “Gli uomini si sono liberati delle loro paure. Gli stregoni senza vita e anima, cacciati. La carestia sarà a breve sconfitta con il raccolto che si accingono a mietere e distribuire, e con essa si allontanerà anche la malattia". – La vecchia sembra combattuta nel non predire morte e sventura. Ma improvvisamente la sua gracchiante voce diventa chiara e tonante: “Sappiate che non dappertutto gli uomini smetteranno di patire la fame, non ovunque la malattia sarà debellata, non ogni città verrà ricostruita e le famiglie troveranno riparo, non ovunque il male smetterà di perdurare e…”

“Basta così.” dichiara secco il vecchio “Dobbiamo prendere delle decisione e per farlo voglio sapere qual è la situazione nelle diverse terre non quello che sarà o non sarà”

Dal fondo del tavolo, , coperta da una leggera veste di un folto e vaporoso pelo e appollaiata su uno scranno, vi è una giovane forte e vigorosa. Leggiadra come un felino, le sue movenze sono aggraziate e balza in piedi senza rumore, come un gatto. Anche la sua voce è suadente e mielosa come il miagolio di un gatto affamato. Indicando le terre dei ghiacci proferisce il suo pensiero: “Quello che dice la vecchia è vero. Al nord gli uomini sono liberi da ogni vostra schiavitù e regola. Liberi di pensare hanno trovato il modo di procurare cibo in abbondanza per il loro popolo tanto che ne hanno da vendere e, riacquistando le forze, hanno fermato anche il terribile morbo senza nome ottenendo l’aiuto di un consistente gruppo di guaritori dal sud.”

“E in questo modo hanno condannato la terra degli elfi.” A parlare è una donna dall’età indefinita, seduta in maniera regale e composta di fianco al vecchio.

La giovane snuda i denti aguzzi: “Non mi interrompere, Regina…”

Una folata di vento tumultuoso copre come una coperta le ultime parole e le porta via lontane nello spazio fino a lasciare una piacevole brezza calda nel cui silenzio si possono udire delle parole. Sono le parole di un giovane sottile, seduto con le braccia incrociate e gli occhi chiusi. Ma non sta dormendo, porta le sue magiche parole leggiadre come delle piume sulle ali del vento. “Frena gli istinti, Lince. Non contendetevi ciò che è stato. L’unica cosa saggia è accettare la verità. Il nostro popolo ha condannato quella terra ma ha salvato la propria poiché il loro spirito era più forte, la loro voce più potente e maggiore la loro volontà. Prendetene atto Regina e diteci in che situazione sono le terre degli elfi”

Mentre la giovane felina si sistema nervosamente e offesa accucciandosi sullo sgabello come un gatto la donna riversa le sue parole con una voce cristallina. La sua bocca si fa sorgente di acqua limpida e chiara, ma al contempo gelida. “Gli uomini e gli eredi dell’est continuano a morire all’ombra delle mie foreste e sulle sponde dei laghi e dei fiumi che portano i loro cadaveri verso il mare. E nessuna speranza vi è nel futuro poiché nessuna coltivazione è stata fatta, nessun seme è stato piantato, nessuna canzone è stata innalzata al tramonto. Mi sento debole, io che provengo da quelle terre e non so per quanto tempo potremo continuare in questa carestia. Vinyamar è stata ricostruita, ma il suo splendore è ora un po’ più vecchio di quello degli elfi poiché non v’è più la maestria degli elfi.”

“Posso comprendere bene ciò che dite.” Dal capo della tavola più illuminato, si alza una profonda voce, ma vi è qualcosa di strano in quella voce. La testa calva leggermente infossata tra le spalle e il contorno degli occhi azzurri e penetranti sono contornati di stanchezza. “Moinalfirin non verrà ricostruita ancora per diverso tempo. Le forze vengono a mancare persino a me talvolta. A me! Gli uomini aspirano ad essere come me! Ma la mancanza di forze e cibo. La feroce malattia senza nome che sfugge al nostro controllo…”

Gli stanchi occhi si spostano sulla vecchia. “Non dappertutto la malattia cesserà di mietere vittime, sicuramente non nella valle eterna. I suoi uomini hanno lottato come leoni per riacquistare la libertà perduta, ma per fare questo hanno perso ogni altra cosa. Molti hanno perso tutto, anche la loro vita.”

All’altro capo del tavolo, un ghigno si staglia su un volto ed una figura immersa nell’ombra si mette più comoda sul suo nero trono. Gli occhi azzurri dell’uomo dall’altra parte la fissano impassibile.

Notando la silenziosa ostilità, il vecchio comandante spezza il silenzio: “Pare che gli uomini delle rocce e della bruma ce la faranno invece! Dalle terre calde del sole sono giunte aiuti e vettovaglie e festeggiamenti sono stati fatti per la ricostruzione della loro città data alle fiamme! Che sacrificio quello! Non mi sono mai sentito così rinvigorito quand’ho visto il Duca Manfredi fare l’estremo atto di guerra! Ah, quali perfetti combattenti sono quegli armigeri! In fondo è da una vita che seguono i miei insegnamenti! E’la mia via!”

Una bassa risata rauca e roboante, come se provenisse dal centro della terra spezza il fantasticare del vecchio. Un uomo nodoso, con la pelle scura come i bruti ma rugosa e lignea, dai movimenti lenti e pressoché impercettibili, sta parlando con la bocca aperta. Le parole scandite ma molto più veloci dei movimenti del suo corpo. “I tuoi insegnamenti! Che testa di legno! Quegli uomini seguono da sempre gli insegnamenti della terra e delle foreste, non i tuoi insegnamenti vecchio fabbro! Alcuni fanno finta di seguirti ma in realtà credono alle fiabe della nonna ed ai racconti sulla bruma…”

Improvvisamente, dall’ombra in cui si nasconde l’uomo con lo strano ghigno, vicino al giovane con gli occhi chiusi che comanda il vento, giunge una spessa caligine di pura nebbia che ricopre tutta la stanza. Nessuno dei presenti vede più nulla, ma sente tutto. “Gli uomini di Castelbruma, seguono il mio volere credono in me molto più di quanto credano in te!”

“Inneggiano molto più a Canuto che alla Bruma!” – si scalda il vecchio con la voce ferma.

“Sì, ma di me hanno paura! E questo mi rende molto più forte di te ed essi credono molto di più alle storie raccontate dalle nonne che alle mille battaglie da te combattute! Presto vedremo chi vincerà tra di noi. Molto presto! Vedrai!”
Di nuovo una folata di vento rischiara la stanza, il giovane ha ancora gli occhi chiusi.

Un uomo grigio fa appena in tempo a ritrarsi nuovamente nell’ombra.

La nuova luce rivela una bellissima giovane scossa da tremiti di pianto. La sua veste è quasi trasparente a rivelare parzialmente le sue forme perfette. I lunghi capelli le coprono le mani posate sugli occhi. Sentendo il silenzio, ella toglie le mani dal viso e il rossore del pianto non rovina affatto la sua avvenenza Anzi, incornicia con tratto leggero due meravigliosi occhi verdi.

La giovane felina soffia aggressiva quando incontra quegli occhi, mentre l’uomo pelato dagli occhi azzurri le chiede: “Perché piangi bambina?”.

“Piango per le creature morte. Piango perché io mi sento ogni giorno meglio. Al sud, la terra dei mercanti è anch’essa stata aiutata dagli uomini del sole ed ora ripartono con maggiore forza nei loro affari. Fanno l’amore, si scambiano merci e sperano nel futuro. Ma nulla confronto della forza che vi è all’estremità sud del regno!”

La fanciulla prende ad accarezzare la riproduzione della sabbia del deserto al centro del tavolo. "Uomini vigorosi, che con il concime dato dai barbari del nord hanno raccolto dai campi prima del previsto! E dovreste vedere la città di Elianto dalle mille fontane che zampillano con la loro dolcissima acqua di giorno e che riflettono la luna di notte. Uno spettacolo che intenerisce il cuore e fa piangere di gioia.

Piango di felicità e tristezza dunque. Perché finalmente seppur con grande ritardo, dopo la carestia è giunto il momento del raccolto di quelle grandi coltivazioni che gli uomini hanno creato in armonia tra di loro condividendo cibo, uomini e semi. E sarà un po’ come essere all'inizio della stagione delle messi, dove tutte queste terre che vedete sono un lago dorato che ondeggia carezzato da un vento asciutto che, dopo aver flagellato gli altopiani settentrionali e percorso gran parte della penisola, ha consumato tutto il suo impeto. Su queste terre affronta serafico la fine, baciando la vita di quelle spighe vigorose…”

E come un coltello su un piatto di porcellana, terribili a sentirsi giungono delle parole cavalcando una voce stridente: “Ma come ben sai questa non è la stagione delle messi, Laetitia. Questa è l'estate che volge rapida al termine: le giornate sono a tratti ancora soffocate dallo scirocco afoso alitato dal mare, tuttavia le notti fresche si fanno fredde. Presto le umide brezze diurne cesseranno di spirare, mentre il sole diverrà tiepido. Il tempo della semina si approssima. Eppure, là sotto, le terre spezzate sono invece pronta per la mietitura…”

E la figura dall’ombra si alza. Il ghigno è sparito e dall’interno del cappuccio non si riesce a scorgere alcun volto, sembra essere un assassino. Il suono di quella voce dissonante continua:

“Dopo questo mio lungo regno, piuttosto, ditemi, amici miei. Mi avete raccontato dei barbari del nord, degli armigeri della bruma, dei fedeli paladini di Valleterna e degli eredi dei boschi, dei mercanti di Venalia e delle lande assolate di Meridia. Ma nessuno di voi ha ancora osato proferire parola sul centro del regno e sulla morte del Re. Chi guiderà ora quegli uomini, chi di voi gli farà da guida?”

Tutti i presenti incominciano nello stesso momento. C’è chi urla per farsi sentire, chi ruggisce, chi litiga o discute, chi si azzuffa e chi rimane seduto. La voce dello Spirito del vento si alza in maniera indecisa, a tratti forte a tratti cadendo totalmente. Laetitia scoppia in lacrime, disperate questa volta. Quella vecchia megera di Aeterna inveisce contro lo spirito dell’Orso che finora era rimasto assopito sulla sua sedia a braccia conserte stanco della sua lunga veglia, pregustando il letargo e sognando di dormire in eterno. Ognuno pretende di portare la propria voce nel cuore del regno dove un vuoto di potere si protrae da mesi ormai. Dove l’erede non è al sicuro tra le braccia della madre e tutti tramano alle spalle per rincorrere un briciolo di potere.

Distratti dalla loro lite, quasi nessuno tra gli astanti si accorge che l’uomo dall’ombra si dirige verso l’uscita. Solo l’uomo in grigio, lo spirito della nebbia, l’uomo con gli azzurri occhi penetranti, Sidereo, e lo spirito del falco con i suoi occhi di rapace, guardano silenziosi la morte andare via e raccogliere, con un ampio sorriso in volto dal fianco della porta un lunga falce sempre affilata, pronta per la mietitura di fine estate...

Autore
Dagoberto da Conquista