Agnolo
Agnolo
Popolo brinnico ti racconto una storia, una storia felice, di uno spirito semplice che pur inetto si riunì fiero agli Spiriti di tutte le cose.
L’aver portato a termine quella gravidanza era stata la prova d’amore più grande di sua madre, nota anche nei villaggi limitrofi per lo svolgere il mestiere più antico del mondo.
L’incertezza invece prevaleva sull’identità del padre, anche se Agnolo ne riconobbe uno solo, un ometto basso e secco, un po’ calvo.
Questo presunto padre era però mediamente danaroso e, un tempo, aduso alla caccia tanto da sapersi distinguere ed accumulare tanti Elementi Grezzi quanto un buon cacciatore potrebbe fare in almeno un paio di vite.
Agnolo inizialmente era stato battezzato con il nome di Agilulfo, ma sin dalla più tenera età il suo buoncuore, la sua pancia e la sua assoluta goffaggine avevano portato la gente locale a chiamarlo in quel modo e ad attribuirgli ben scarsa considerazione.
Di certo non era figlio di suo padre, questo era chiaro a chiunque avesse preso a paragone quell’ometto insignificante con quel ragazzone panciuto e robusto, ma non di meno per Agnolo l’amore verso suo padre era cosa sacra, e il suo essere ritardato non lo aiutava certo a comprendere l’ospitalità della madre o la pregiudizievole fisicità del padre.
L’attacco di orchi al suo villaggio, un aggregato di capanni nella valle dello Zaffiro, era stato inatteso e violento. Suo padre si era battuto in prima linea, nonostante gli acciacchi, ed era morto. Sua madre piangeva tanto. Lui si era nascosto, pavido ed incapace di fare del male ad una mosca. Quando però comprese il pericolo per gli altri ed arrivarono dei cacciatori al servizio degli Alanera, signori di Corvia, si gettò nello scontro con selvaggia determinazione.
Trovatosi incapace alla resa cadde ma si risvegliò il giorno dopo la scorribanda orchesca, salvato dai prodi guardiani risaliti da Via del Corvo.
Il trauma della perdita del padre e il rispetto mostrato dai locali per i salvatori lo portarono ad abbandonare la madre con la determinazione di tornare un giorno, capace di difendere al meglio i suoi vicini e guadagnarsi quel rispetto che lui, grosso tonto viziato, aveva solo sognato.
La madre certamente non era in grado di fermare l’ottuso pargolo, ormai fin troppo cresciuto, ma accettò soprattutto confidando in suo fratello, tale Gazza di Corvia, proprio uno di quegli uomini giunti in modo tanto salvifico. Agnolo di certo non poteva sentirsi più fortunato: lo zio aveva addirittura da consegnare una missiva al Principe Alarico D’Urso in persona.
Abbandonò il villaggio pieno di entusiasmo ed ottimismo, certo che avrebbe imparato molto e molto rispetto si sarebbe ricavato accompagnando suo zio Gazza, un uomo che ai suoi occhi ingenui sembrava tanto potente e temuto. Però nella sua mente si era rafforzato il senso di colpa per l’essersi nascosto alla morte del padre, e l’odio cresceva nella sua mente tanto vuota da rendere quel pensiero ossessivo.
Rapidamente lo zio poté valutare le capacità del suo unico nipote: ottuso quanto robusto e goffo tanto da non permettere di affidargli una spada ma non disperava che potesse imparare, in futuro, ad essere un combattente di un certo spessore.
La missiva che portava con sé mise in allarme il Principe Alarico d’Urso, lo si vedeva ogni sera solo, perseguitato dai suoi pensieri, incollerito per certe faccende piratesche che la mente di Agnolo non poteva di certo comprendere.
Comprese invece la volontà del sovrano di ammetterlo nella sua scorta personale: questo lo riempì di orgoglio ed entrò nel villaggio di Approdo con il petto gonfio, vedendo negli occhi dei popolani quella specie di ammirazione che aveva visto nei suoi concittadini, dopo i tragici eventi della notte che non avrebbe mai dimenticato.
La città, per lui incredibilmente sfarzosa e grande con più di un fabbro e più di una taverna, doveva ospitare un evento d’eccezionale importanza.
Il nobile Meroveo Alanera si doveva sposare con la brinnica Beldiluce del Clan dell’Orso, e questo aveva richiamato ospiti e delegazioni da tutte le Terre Spezzate.
Però proprio la lettera consegnata dallo zio avvertiva il Principe del tradimento di Alanera. Da troppo i signori di Corvia erano sembrati pacificati, forse per questo il sanguinario sovrano non si stupì.
Alle porte di Approdo, mentre l’ultima bruma veniva dispersa dall’aria salmastra, un drappello di uomini del mare e bruti discutesa deciso a catturare e far parlare il colpevole fermando sul nascere la tanto attesa cerimonia.
Fra quegli uomini c’erano il Principe in persona ed il nobile Cavalier Grimaldo di Roccaferrata, oltre che un’arciera di nome Aloisa, giunta anch’essa da Roccaferrata, un aspirante fabbro umano rispondente al nome di Dagoberto e una sua amica di infanzia di razza bruta, feroce guerriera.
Meroveo Alanera non ebbe il tempo di fiatare, né alcun brinnico ed invitato fece in tempo a metter mano alle armi, bloccati dal Principe di Castelbruma in persona, pronto a spiegare che la legge brumiana non concede seconda opportunità e titubanza.
Agnolo ovviamente era parte del contingente, probabilmente il più spaventato di tutti. Meroveo era un nobile, ed oltre che un nobile era un Alanera, imparentato con i signori di Corvia, l’autorità che aveva sempre imperversato nella valle dello Zaffiro.
Seppur sconvolto e spaventato dall’atteggiamento altezzoso e dalle mincacce di quel nobile, Agnolo trovò conforto nel suo sovrano. Tanto conforto da essere incaricato, lui, di umili origini, di trascinare per la radura alle porte di Approdo un Meroveo Alanera, nobile, rinchiuso nella gogna.
Non era quell’umiliazione inflitta o lo sguardo ancor più ammirato dei popolani ad interessare Agnolo: pareva che l’uomo che trascinava non solo fosse colpevole di tradimento, ma addirittura fosse il mandante delle insolite ed organizzate scorribande orchesche.
Chiaro che la condanna a morte fosse per Agnolo una rivalsa sociale e una vendetta con chi aveva scatenato gli orchi, quegli stessi orchi che odiava con una determinazione così selvaggia e devastante, che solo un umano del Mare può condividere e comprendere.
Il Principe Alarico d’Urso in persona era soddisfatto del suo operato, tanto da voler conoscere la sua storia, il suo vero nome, Agilulfo.
Fu Agilulfo e non più Agnolo mandato solo con la inesperta guerriera bruta nel bosco a nascondere la salma decapitata del traditore.
Fu Agilulfo e non più Agnolo ad essere sorpreso dall’orco che in un paio di colpi abbatté la sua compagna.
Fu Agilulfo e non più Agnolo a non fuggire pavidamente ma ad abbattersi con coraggio sul nemico, il nemico tanto odiato da cui il suo spirito mai più si sarebbe ritirato.
Fu di Agilulfo e non più di Agnolo la salma ricomposta dal nobile Grimaldo, per avere una sepoltura degna, tanto degna dall’animare una cerimonia tetradica.
Impara popolo di Altabrina!
Finalmente ad Agilulfo fu data una spada, che ancora oggi lo accompagna e lo accompagnerà per sempre. Il suo spirito riposa fiero, cancellata una macchia che credeva incancellabile.
Ricordate Agilulfo, detto Agnolo.
In questo modo ricorderete la differenza fra il morire una volta sola e morire tutti i giorni.
Agnolo è morto con suo padre, preso dalla codardia, privo d’onore.
Agilulfo è morto con una guerriera bruta, onorato come mai Agnolo sarebba stato.
Il più incapace dei brumiani ha saputo perdonare sé stesso e la propria indegnità.
Che nessun brinnico scordi di assecondare gli spiriti, che nessun brinnico scordi che il peso di non aver agito è ben più grave di aver agito invano.
Autore
Ventoforte